La vicenda di Giulio Regeni è arcinota. La tortura e l’uccisione subite dal ricercatore di Fiumicello in Egitto sono avvenute più di sei anni fa. Un tempo ormai lontano, che pure non è servito ad avere giustizia per quel delitto. Un tempo lontano in cui però – grazie soprattutto ai suoi genitori, Paola Deffendi e Claudio Regeni – la memoria di questa triste storia e il desiderio di verità e giustizia processuale su di essa non si sono mai assopite. A questo, anche, è servito l’incontro di sabato 9 luglio alla Stazione di Topolò, durante il quale è intervenuto anche Pif, regista, attore, autore e conduttore sia televisivo che radiofonico, ormai ospite fisso della Postaja. Un incontro che, grazie all’ironia e alla leggerezza di Pif, e al garbo dei genitori, è servito anche ad avere un ritratto particolare di Giulio, dal fatto che avesse il difetto di essere ‘rognoso’, come ha detto sua madre, quindi puntiglioso, al fatto che usasse spesso il dialetto del proprio paese, anche quando doveva comunicare da lontano.
Venendo agli aspetti più legati alla vicenda, la madre ha ricordato che “fin dall’inizio ci siamo trovati a dover difendere l’immagine di Giulio, non tanto per dire se era un bravo ragazzo o meno, quanto perché una certa parte della stampa aveva creato una figura su di lui che non corrispondeva alla realtà, attribuendogli attività e funzioni non sue”.
“Quando ci chiedono dove troviamo la forza, il coraggio per fare quello che facciamo, per andare avanti dopo tanti anni – ha aggiunto poi il padre – rispondiamo che è qualcosa che ci viene spontaneo, perché quanto è stato fatto a Giulio è un oltraggio inaccettabile che nessuno dovrebbe subire e che non auguriamo a nessuno.”
Non è mancato l’accenno a come i governi italiani di questi ultimi anni abbiano affrontato la vicenda. “Abbiamo ricevuto tante promesse e attestazioni di comprensione – ha affermato Claudio Regeni – ma alla fine la politica si è arresa alle questioni pratiche, economiche. Nei rapporti tra Stati, come vengono trattati i diritti civili è qualcosa che non viene mai preso in considerazione.” L’eccezione, hanno ammesso i genitori di Giulio, è stata l’azione del presidente della Camera, Roberto Fico.
Ma si arriverà mai alla verità? Il padre ha fatto sapere che non si è lontani: “La verità è stata scritta, anche dalle istituzioni, e abbiamo i nomi delle quattro persone che sono state quelle più implicate nell’inseguimento, nelle torture e nell’uccisione di Giulio. Anche se in questo momento a causa di cavilli legali il processo non sta andando avanti.”
Infine, cosa puà fare una singola persona, chiunque, per dimostrare la sua vicinanza ai coniugi Regeni? Ha risposto la madre: “Chi ha delle idee, che non vuol dire fare un film su Giulio, un suo ritratto o una canzone, ma idee, per starci vicino e per tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica, è ben accetto. Se riusciamo, insieme, ad aprire un varco nelle paure delle istituzioni, se riusciamo a farlo con Giulio, lo faremo per le tante tragedie sulle quali è calato un velo di omertà.”

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Helena Janeczek, nata a Monaco di Baviera da genitori polacchi di origine ebraica, è diventata un nome di rilievo della letteratura italiana (vive in Italia dal 1983) grazie al libro ‘La ragazza con la Leica’, che nel 2018 ha ottenuto il premio Strega e il premio Bagutta. È una biografia romanzata della fotoreporter Gerda Taro, uccisa durante la guerra civile spagnola degli anni ’30, vista attraverso i punti di vista e i ricordi di alcuni personaggi a lei molto vicini. Il libro diventerà un film diretto dalla regista milanese Alina Marrazzi, che a Topolò, dove è già venuta spesso per la Postaja, ha incontrato la scrittrice, dialogando con lei e con la curatrice degli eventi letterari, Antonella Bukovaz.
Il tema da cui sono partite le tre protagoniste dell’incontro è stato però quello delle “lingue che ci abitano”: per Helena sono il tedesco, l’inglese, il russo, il francese, l’italiano, in forma minore il polacco e l’yiddish. Nei suoi libri usa spesso degli intarsi linguistici diversi dall’italiano. “L’uso delle lingue altre è qualcosa con cui sono cresciuta, il non avere una lingua sola, una lingua madre… L’uso che faccio delle lingue straniere nei miei libri non è sempre uguale, ha a che fare con il rapporto di appartenenza o non appartenenza con le lingue, ha spesso a che fare anche con il rapporto tra lingua e potere (se puoi scegliere di cambiare lingua o nome, anche se sei in posizione di subalternità, è un atto di affermazione, se avviene invece per imposizione è un atto di potere, di violenza). Le lingue dicono sui rapporti tra le persone, che possono essere anche affettivi” ha spiegato la scrittrice, per la quale è comunque importante che, al di là della comprensione, qualcosa della parola arrivi al lettore anche attraverso il suono “che dice anche di come le parole, per quanto astratte, abbiano a che fare con una risonanza, hanno un potere evocativo.”
Helena Janeczek ha poi parlato del suo impegno per la causa dell’attivista Alaa Abdel Fattah – incarcerato perché oppositore del governo egiziano e che da parecchie settimane è in sciopero della fame per denunciare le condizioni disumane della sua detenzione – ma anche di un suo libro (‘Lezioni di tenebra’) in cui alla fine degli anni Novanta raccontò di un viaggio con sua madre ad Auschwitz, al cui lager la genitrice era sopravvissuta.