“Era il momento di fare altro”. In una risposta alle tante domande piovute su Moreno Miorelli nei giorni scorsi – dopo l’annuncio (criptico, forse, ma nello stile della Stazione di Topolò) che l’edizione dello scorso luglio della Postaja sarebbe stata l’ultima – c’è la semplice spiegazione di una decisione che comunque ha sorpreso e allo stesso tempo colpito il mondo culturale, e non solo, della nostra regione, e non solo. Molti quelli che si sono espressi con un semplice ringraziamento, forse il modo migliore per salutare il ‘non festival’ di cui Moreno è stato ideatore e direttore artistico, fino a un paio di anni fa assieme a Donatella Ruttar, e con a fianco Antonella Bukovaz, presidente dell’Associazione Topolò Topoluove e negli ultimi anni organizzatrice degli incontri letterari. A Moreno, dunque, la parola, per raccontare il prima e il durante. Il dopo sarà sicuramente un’altra bella sfida.
Riavvolgendo il nastro, che Moreno Miorelli era quello che è salito per la prima volta a Topolò?
Mah… Quello di adesso, solo i capelli lunghi, neri e non grigi. Scherzi a parte, sono sempre stato mosso, fin dalla gioventù, da alcune passioni totalizzanti che hanno guidato la mia vita, determinandone le scelte e anche gli spostamenti, guidati da interessi ‘non pratici’: prima di tutto la poesia e con lei la storia, la mistica e le religioni, le arti (in particolare la pittura e la musica). Ho orientato la mia vita in modo da poter dedicare il tempo e lo spazio mentale a queste cose. Diciamo che ho sempre privilegiato la parte emotiva, tralasciando quella pratica. Così sono arrivato a Topolò, nel 1993, grazie a una imbeccata di Alessio Petricig, dopo che avevo visitato altri luoghi delle Valli dove poter sviluppare quel progetto che ancora non aveva un nome e che poi sarà la Stazione/Postaja. Portavo le esperienze degli anni precedenti e gli incontri avuti nel mio girovagare e l’idea che l’arte, anche quella contemporanea, non poteva essere patrimonio solo di pochi addetti ai lavori ma che contenesse qualcosa che riguarda tutti, colti e non colti. E che andava portata fuori dalle gallerie e dai musei, nei posti dove c’è la vita vera, senza inutili infrastrutture, utilizzando quello che il luogo può offrire.
La Postaja all’inizio era un’altra cosa rispetto a quella che molti conosciamo, cosa ha portato al cambiamento?
Sì, all’inizio erano installazioni. La maggior parte delle amicizie artistiche che avevo coltivato, nel nord-ovest, in Toscana, in Veneto e qui, negli anni precedenti il 1993, era di artisti di quella disciplina. Già dalla prima edizione, però, venivano proposte molte serate con concerti, presentazioni di libri e proiezioni di documentari e film; serate estemporanee che lentamente si strutturarono in un vero e proprio cartellone di eventi. Nel frattempo, il discorso delle installazioni, potentissime nelle prime edizioni, stava perdendo forza, diventava ripetitivo, per il pubblico un mordi e fuggi. Inoltre, lo ammetto, il mondo che ruota intorno alle arti visive mi toglieva l’aria: la Stazione stava diventando una mostra qualsiasi, anche se all’aperto. Così, nel 2000, decisi di eliminare ogni aspetto espositivo e di puntare su cose che coinvolgessero di più: laboratori per bambini e ragazzi, progetti musicali, ricerche sull’ambiente sonoro, operazioni ‘situazioniste’ (l’aeroporto, la comunità ebraica, le ambasciate e altro), le proiezioni di video, documentari e film nel cinema ricavato da un grande muro imbiancato di anno in anno, mantenendo la poesia scritta (curata da te, Michele) e anche quella non scritta. Tutte cose già avviate negli anni precedenti ma che erano in secondo piano rispetto alla ‘mostra’ e che sono state il frutto dei consigli di molti, artisti e collaboratori.
Fu un azzardo vincente: non c’era più nulla da vedere ma questo obbligava quello che prima era un pubblico passivo a partecipare, poco o tanto, a quanto accadeva. Anche solo per capire cosa diavolo stesse accadendo, in quegli orari che non c’erano (verso sera, con il buio, eccetera). Fondamentale, a mio parere, per l’arrivo di moltissimi ragazzi è stata la nascita dei Tambours de Topolò, un’idea di Antonella Bukovaz, instancabile e insostituibile quanto il nostro super tecnico Valerio e Carla e Sandro che hanno gestito ristoro e accoglienza. E ancora la Topolovska Orkestra, frutto della genialità di Antonio Della Marina.
Ci sono stati anche momenti difficili, ricordo quando avete dovuto affidarvi a una lotteria per finanziarvi.
La lotteria salvò la prima edizione della Stazione, insieme al chioschetto. Mi piace ricordare il contributo, nei primi anni, anche del Salone Luisa: coraggiosi. Poi ci pensò l’Associazione Artisti della Benecia, tramite Donatella Ruttar (che ha curato fin dall’inizio la grafica e ha condiviso dal ’98 al 2019 la direzione artistica), a sanare le spese vive, ma fino al 2003 non abbiamo ricevuto finanziamenti pubblici, se non piccoli contributi sporadici. Nel 2013, un assessore, ostile alla cultura, tagliò drasticamente il contributo regionale e ci furono diverse raccolte di fondi provenienti da tutto il mondo, tra cui un’asta online di opere di pitture, a Milano, voluta da Guido Scarabottolo, che salvarono la Stazione, oltre al provvidenziale cambio dell’assessore.
Qualcosa di cui non ha potuto fare a meno la Postaja è stato l’appoggio della gente di Topolò. È stato sempre un appoggio incondizionato?
Ah, non ci sarebbe stata la Stazione senza il paese di Topolò. Ringrazierò sempre gli abitanti che dal primo giorno hanno messo a disposizione spazi privati, case, fienili, mano d’opera, tempo e pazienza, aprendo anche i cassetti dei ricordi, raccontando agli artisti cosa sono state l’emigrazione, la vita su questo confine… Qualche malumore individuale, naturalmente, soprattutto da non residenti, ma molto contenuto. Alcune minacce, nei primi anni, fin dai primi giorni, anche pesanti e tante calunnie sul mio conto ma provenienti dai dintorni, mai dal paese. Non dimentichiamoci che Topolò era, è, un luogo molto isolato, con un suo equilibrio, e vedere di punto in bianco giungere migliaia di persone da mezzo mondo, beh…sono stati grandiosi. Un’apertura che ancora oggi, ripensandoci, mi stupisce. E devo ringraziare, oltre a tutti gli abitanti, Renzo Rucli, che del paese era il referente, l’uomo di fiducia. È lui che mi ha introdotto, una domenica mattina, all’uscita dalla messa, dicendo ai topoluciani “fidatevi di questo forestiero”, e che ha organizzato le rabuote per poter meglio accogliere la manifestazione. E ringrazio i miei figli che hanno sopportato una casa sempre stracolma di gente e orari improbabili e un caos che ci ha anche portato a dimenticare qualche compleanno…
C’è stato qualcuno che ti sarebbe piaciuto avere come ospite e non è stato possibile?
Artisti che ho sempre ammirato, come Michael Harrison, pianista e compositore americano, mi avevano espresso il desiderio di partecipare, gratuitamente. Si sarebbero accontentati del rimborso del biglietto aereo ma anche questa spesa, banale per altre manifestazioni, per noi era insostenibile. Devo dire, però, che alla Stazione sono passati personaggi che potevo solo sognarmi: Ulay e Alvin Curran, per citarne due, i due concerti con l’orchestra sinfonica giovanile centroeuropea, i tre spettacoli di Marco Paolini e moltissimi altri artisti e ricercatori con qualità umane davvero uniche. Troppi per nominarli tutti, noti e meno noti, ma Gianfilippo Pedote e Alina Marazzi, i nostri cine-consulenti, presenti dal 1994, van detti.
Venendo all’oggi: per te si chiude un ciclo e se ne apre un altro?
Si chiude un ciclo che mi ha arricchito tantissimo e questo tesoro è parte dello zaino per il futuro. Dopo 30 anni, però, voglio vedere cosa c’è oltre la Stazione e oltre Topolò. uno dei miei poeti-guida, Eliot, ha scritto: “I vecchi dovrebbero essere esploratori”. Ecco, due terzi della vita sono passati e voglio giocarmi (salute permettendo) quest’ultima parte in campo aperto. Non so cosa sarà ma proprio questo mi riempie di entusiasmo. La passerella del Trentennale, le lodi, la retorica per me ormai insopportabile sul paese che rinasce eccetera mi avrebbero profondamente depresso. Non so vivere ‘tirando a campare’ e so per esperienza, parafrasando Giovanni della Croce, che solo andando dove non sai può succederti qualcosa che illumini il proprio stare al mondo.
L’associazione Topolò continuerà, con altri obiettivi?
Certo, ha già in cantiere progetti relativi alla sentieristica, alla toponomastica e continuerà a operare per migliorare la vita in paese e per conservare le tradizionali feste. E se ci saranno altre idee, e ci saranno, l’Associazione c’è.
In questi giorni sul web sono state molte le attestazioni di gratitudine verso la Stazione e chi l’ha creata e portata avanti per tanti anni, molti si sono detti dispiaciuti, pur comprendendo i motivi, qualcuno però si è anche chiesto se non fosse stato possibile semplicemente passare il testimone ad altri.
Sì, un diluvio di attestati di affetto dai quattro angoli del mondo. Centinaia e centinaia, sui social e in privato. Mi ha colpito vedere come tanti ragazzi in giro per il mondo portino con sé quanto di positivo ritengono di aver appreso alla Stazione. Sono loro il frutto di questi anni e sono ovunque. La Stazione ha voluto essere un punto di transito non la fermata su un binario morto. Per tutti loro, Topolò è diventato un punto essenziale nella mappa dei luoghi del cuore. Annunciando il mio spostarmi su altro ho solo chiesto che, se possibile, si utilizzi un altro nome. La mia è solo una richiesta, non un’imposizione. Non brevetto il nome e se qualcuno vuole fare altro gli auguro ogni bene. Il fatto è che il nome Stazione di Topolò è nato da un gesto che feci, legato alla mia fiducia nella poesia. E passare un testimone che si fonda su gesti irrazionali e su esperienze e relazioni umane personali, spesso forti, sempre di fiducia e stima reciproca, non è come passare dei numeri di telefono. La Stazione ha un metodo che non sta scritto e che non c’è e che nasce dalla ‘pancia’, non dalla testa. Non c’è strategia, c’è intuito animale e molta incoscienza. Mette sempre il carro davanti ai buoi e quel carro corre più veloce che se fosse trainato. È un non-metodo che innesca anche la fortuna. La Stazione non era un contenitore di spettacoli che chiunque altro può riempire con le sue scelte artistiche, quelli sono i festival. Topolò, comunque, non resta orfana: ci sono le ragazze di Robida, che operano con modalità diverse rispetto alla Postaja. Sarà tutto diverso, mi auguro migliore, comunque Topolò resta sempre Topolò, con i suoi pochi abitanti storici che combattono ogni giorno contro l’assedio di una natura amazzonica. Lì si che c’è dell’epica.
(m.o.)
Caro Moreno
All the best per i prossimi passi.
Ci si rinnova sempre andando verso ciò che non si conosce ancora!
Un bacio
Luisa Bocchietto
grazie Moreno grazie per questi anni e per ricordare l epica vera di resistere a vivere a Topolo’ senza la solita nsopportabile retorica
Grazie a Moreno e a tutti coloro che in questi anni ci hanno fatto meravigliare, stupire e rinnovare con la Stazione di Topoló
Un forte e affettuoso abbraccio a Moreno, Donatella e Miha con perenne riconoscenza per aver generosamente accolto a Postaja Topolove anche il poeta Giangiacomo Menon.
Cesare Sartori