Dopo un periodo, circa 14 mesi, in cui ha giocato da solo, senza avversari, il quasi plenipotenziario (ex) ministro degli interni Salvini ha pensato bene di farsi un autogol micidiale. Fra un mojito in spiaggia, un dj-set con le cubiste e ripetute invocazioni al “cuore immacolato di Maria”, ha scelto di staccare la spina al suo governo, mollando gli alleati fra i più proni che il Parlamento della Repubblica abbia conosciuto. Che gli ha votato decreti sicurezza di dubbissima legittimità costituzionale e lo ha salvato da un processo per sequestro di persona. Ha fatto un errore da principiante della politica, nonostante i 26 anni di ininterrotta attività alle spalle. Ha chiesto pieni poteri, preteso le elezioni immediate, preteso di gestirle restando incollato alla sua poltrona al Viminale. Ed evidentemente ha fatto i conti senza l’oste: la Costituzione. Per ottenere qualche poltrona in più e per sé una più alta (o forse per non rispondere di Savoini o non dover trovare i soldi per la finanziaria), ha dato origine a una crisi di governo lisergica. Ha riesumato Renzi, Boschi e Grillo. Ha fatto trasfigurare Conte da quello che chiedeva il permesso di parlare a un certo Di Maio in un lucidissimo statista. Ha fatto incavolare il suo braccio destro Giorgetti e tentato una retro-marcia che nemmeno una corriera sui tornanti stretti di Topolò. Uno stratega che farebbe impallidire Kasparov. Infine, proprio mentre scriviamo queste righe, ha palesato il fatto che l’alleato prono non aspettava altro che sottrarsi al suo abbraccio soffocante. Non si ricorda un presidente del consiglio che abbia accusato il suo ministro degli interni di volere “derive autoritarie”. Anche per questo la rapida fine del governo del cambiamento gattopardiano, seguita alla fine di quello della rottamazione, ci ricorda che il sistema dei partiti non è stato ancora in grado di rispondere alla crisi profonda, alle fratture strutturali che si ampliano invece di rimarginarsi, in cui da decenni annaspa il sistema Paese. (a.b.)