Un contentino per i gruppetti antisloveni di sempre all’indomani delle amministrative? O un contentino per un parlamentare della Regione, rimasto ai margini delle cronache negli ultimi mesi trascorsi sui banchi di un partito in fase di smobilitazione? Oppure un messaggio per chi ha creduto – e spintonato per salire sul carro vincente – che la destra potesse essere la migliore alleata per la soluzione dei tanti problemi della comunità slovena in Italia?
Le possibili letture per la proposta della giunta regionale di istituire un albo-bis per le associazioni che valorizzano le “varianti locali” (cioè i dialetti sloveni della provincia di Udine), con una modifica alla legge di tutela della comunità linguistica slovena, sono molteplici.
Di certo c’è che nelle vallate a ridosso del confine ce n’era bisogno come si può aver bisogno di un nugolo di zanzare tigre in camera durante il pisolino pomeridiano della domenica. Soprattutto dopo una campagna elettorale – è vero, in molti casi “monca”, per la carenza di candidature – in cui, per una volta, l’argomento sloveno non è stato agitato quanto in passato come spauracchio per coagulare consenso.
In un momento in cui, insomma, sembrava che finalmente potessero esserci le premesse per creare quella coesione sociale, nel rispetto di tutte le sensibilità, indispensabile per ragionare su qualsiasi ipotesi, seria, di sviluppo. E invece no.
Pur di gratificare (economicamente, ça va sans dire) chi sostiene teorie volutamente sconclusionate che confondono concetti complessi come nazionalità, appartenenza, lingua, sistemi dialettali, cittadinanza, varianti indipendenti e negano evidenze empiriche e scientifiche, si preferisce rischiare di mandare all’aria tutti i processi virtuosi. E ormai non vale nemmeno più la ratio del divide et impera, che tanto fra qualche anno, avanti di questo passo, si potrà imperare solo su boschi abbandonati.