Siccità invernale, alluvioni, quattro mesi di estati torride all’anno. Il cambiamento climatico è già arrivato. E resterà. I recenti avvenimenti in Emilia Romagna sono solo l’ennesima conferma di cui avremmo fatto volentieri a meno. Eppure, anche di fronte a morte e distruzione, nel dibattito pubblico prevalgono maldestri sciacallaggi, benaltrismo che tende al noncentranullismo, e negazionismo interessatissimo. E quindi passerelle dei politici al governo con fotografi al seguito che è vietato chiamare passerelle. Improbabili liste di proscrizione per chi non si è attivato a spalare fango: gli immigrati (che invece c’erano) o gli attivisti di ultima generazione (che c’erano anche loro). E infine immancabile, la ricerca dei colpevoli: il Pd che governa circa da sempre la Regione, o il governo di destra che rinuncia ai fondi del Pnrr per il dissesto idrogeologico. I più progressisti incolpano il cambiamento climatico. Che, certo, c’entra eccome. Ma che presentato così, diventa quasi un modo per deresponsabilizzare una classe politica che non ha fatto nulla per frenarlo. O quantomeno per mitigarne gli effetti. In questo caso, come in quello del Veneto del 2010 (per par condicio, visto che è una Regione in cui governa da decenni la Lega), una concausa del disastro è l’impennata di consumo di suolo. La cementificazione che ha impermeabilizzato il 7,1% dei terreni in Italia (il 10,4 in Emilia Romagna). E che prosegue, generando danni e distruzione per molti e incredibili profitti per pochi. Un settore che è una cartina di tornasole del sistema in cui viviamo e che nessuno mette in discussione. Tanto che, anche di fronte alle tragedie più esemplificative, nessuno ne fa cenno. Mentre invece la critica a queste contraddizioni di sistema dovrebbe essere il primo argomento anche per le forze ecologiste. Altrimenti è giardinaggio, come si diceva una volta. O greenwashing, come si dice oggi.
(a.b.)